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Come si diventa Restaurant General Manager? Ce lo spiega Pino Savoia del Cannavacciuolo Bistrot Torino

È il volto del Cannavacciuolo Bistrot di Torino, ma professionalmente Pino Savoia è una figura ancora largamente sconosciuta nel panorama della ristorazione italiana: un Restaurant General Manager. In cosa consiste questo ruolo? Come si fa ad acquisire le conoscenze necessarie a ricoprirlo? L’abbiamo chiesto direttamente a lui in questa intervista esclusiva.

Pino Savoia, partiamo dal principio: quand’è che hai cominciato a lavorare nella ristorazione?

Avevo appena quindici anni e andavo ancora al liceo. Trovai lavoro come lavapiatti in un ristorante pizzeria da circa trecento coperti a sera, senza lavastoviglie e senza lavabicchieri. Era l’inizio della gavetta all’epoca, e si trattava di un lavoro davvero molto duro che fin da subito mi ha fatto capire l’importanza di quel ruolo nell’economia di un ristorante. Oggi, nessuno che lavori per me può permettersi di denigrare un lavapiatti, perché sono figure che hanno la stessa dignità e meritano lo stesso rispetto delle altre. Ad ogni modo, qualche tempo dopo mi passarono in cucina e poi, infine, in sala. Capii subito che quello era il mio posto, perché mi piaceva interagire con le persone, consigliarle, cercare di rendere la loro permanenza la migliore possibile. Per migliorare la lingua feci poi un’esperienza a Londra in un ristorante di cucina francese molto apprezzato dalla clientela altolocata londinese e non solo.

Poi comincia la tua carriera negli Hotel di lusso

Sì, subito dopo una serie di esperienze presso alcuni dei migliori servizi catering di Napoli. Ci tengo a sottolinearlo perché credo che quella del banqueting sia davvero una palestra formidabile, perché devi riuscire ad avere una visione a 360° e curare minuziosamente ogni dettaglio, dalla logistica ai materiali, dalla disposizione delle cucine alla sala e via discorrendo. Fu durante uno di questi catering che conobbi quello che considero uno dei migliori camerieri che io abbia mai visto, all’epoca in forza al Santa Lucia, un Hotel cinque stelle di Napoli. Comincia a lavorare anche io come cameriere nel ristorante della struttura, potendo così confrontarmi con un ambiente di lusso frequentato da una clientela internazionale e molto formale, spesso straniera. Qui fui notato dal Direttore, che un giorno suggerì al maître di lasciarmi operare come cameriere ai vini perché apprezzava il modo in cui interagivo con i clienti. Non avrei mai immaginato di poter avere una simile possibilità e subito mi appassionai al mondo del vino, tanto che mi iscrissi al corso dell’AIS (Associazione Italiana Sommelier n.d.r.) e cominciai a studiare da sommelier.

Prendesti quella strada per un po’

In effetti sì, perché mentre frequentavo ancora il corso ebbi un’altra sorpresa: l’allora delegato AIS Napoli mi propose di andare a lavorare come sommelier in un Hotel di nuova costruzione, il San Francesco al Monte. Si trattava e tuttora si tratta di una struttura molto prestigiosa, e io ancora non avevo finito il corso AIS. Pieno di dubbi, gli chiesi come avrei fatto a gestire una cantina da 500 etichette in un posto così importante, ma lui ebbe fiducia in me e l’esperienza fu davvero bella e formativa. Dopo qualche tempo divenni il responsabile del gruppo servizi AIS Napoli e successivamente dell’intera Regione, partecipai come commissario agli esami dei futuri sommelier ed ebbi il piacere e l’onore di essere il coach di Nicoletta Gargiulo, una delle poche donne a vincere il titolo di miglior Sommelier d’Italia nel 2007 e attualmente Presidente dell’AIS Campania.

Quale credi sia stata la tua esperienza più formativa?

Io sono convinto – e non è una frase fatta – che tutte le esperienze che ho fatto siano state egualmente formative, perché da ognuna di esse ho imparato qualcosa che mi è stato utile successivamente. Sicuramente una di quelle che ricordo con maggior piacere è stata quella con la famiglia Iaccarino: iniziai al Don Alfonso, dove conobbi la realtà di un grande ristorante stellato in cui il servizio e l’accoglienza erano importanti tanto quanto la cucina, e successivamente fui mandato all’estero, perché all’epoca la famiglia aveva circa dieci consulenze in giro per il mondo. Trasferirmi e lavorare fuori dall’Italia mi ha permesso di conoscere nuove culture, nuove realtà professionali, nuovi usi e nuovi costumi. Mi ha permesso di aprire la mente, in sostanza, qualità che io considero fondamentale per fare questo lavoro e non solo. Infine, e fu qui che mi cimentai per la prima volta con il ruolo, divenni Direttore del primo Wine Restaurant aperto dalla famiglia Iaccarino a Positano, all’interno di una galleria d’arte in cui erano esposte opere di artisti del calibro di Andy Warhol, tanto per citarne uno. La clientela era di quelle davvero importanti, specialmente americana e inglese, e io trovai in quel ruolo la summa di tante passioni: quella per l’accoglienza, per il vino, per la ristorazione e per l’arte.

Facciamo una carrellata veloce di tutte le tue esperienze prima del Canavacciuolo Bistrot?

Certo, te le racconto brevemente perché sono davvero tante. Partecipai alla startup nota come La Pista, sul tetto del Lingotto a Torino e poi mi spostai a Pollenzo, nell’allora ristorante di Ugo e Piero Alciati, dove trovai anche grazie all’Università di Scienze Enogastronomiche un fermento culturale incredibile. Venni poi chiamato a dirigere il ristorante di un Relais & Chateâux in Puglia, nel quale mi resi conto di cosa vuol dire fare ristorazione in una catena prestigiosa come questa. Poi ebbi l’opportunità, grazie all’amico Alberto Tassinato, di incontrare Enrico Bartolini (recentemente insignito della terza stella Michelin al Mudec di Milano n.d.r.) in Brianza, dove gestiva il ristorante di un importante albergo per il quale aveva un progetto ben preciso: la seconda stella Michelin. Fu forse l’esperienza più impegnativa che io abbia mai fatto, perché da un lato avevamo gli eventi commissionati dall’albergo, dall’altro circa cinquecento coperti al giorno tra pranzi e cene, duecento colazioni, il bistrot e il ristorante stellato. In qualità di Direttore, ebbi la possibilità di confrontarmi con una vera e propria azienda fatta di tante anime e altrettante persone (di cui alcune, mi dispiace dirlo, non furono contente di essere guidate da un uomo del Sud, ma questa è un’altra storia), una vera e propria macchina in cui ogni elemento doveva funzionare alla perfezione. Dopo due anni arrivò la seconda stella Michelin e dopo altri due anni, quando tutto ormai funzionava a meraviglia, decisi che era tempo di cambiare.

Fu allora che approdasti al Bistrot di Torino?

No. Prima feci diverse esperienze negli Stati Uniti che mi permisero di approfondire il mondo della ristorazione americana, molto diversa rispetto a quella europea. Lavorai prima a Miami e poi a New York, ma con le elezioni in vista e le dichiarazioni dell’allora candidato Donald Trump sugli stranieri in America decisi di rientrare in Italia, con l’idea però di tornare una volta che la situazione fosse stata più chiara. A quel punto andai a dirigere come F&B Manager Villa Cimbrone a Ravello in Costiera Amalfitana, uno dei luoghi più suggestivi al mondo, sovente meta di divi di Hollywood che la utilizzavano come location per i loro matrimoni. Oltre al ristorante gastronomico bisognava curare gli ospiti dell’Albergo e gli eventi in maniera impeccabile, perché nulla poteva essere lasciato al caso. Fu allora che arrivò la telefonata di un grande amico: Antonino Cannavacciuolo. Siamo amici da tantissimi anni e ci siamo sempre stimati reciprocamente. Lui però non mi aveva mai fatto proposte professionali per questioni di correttezza: sapeva che stavo lavorando per altre persone (praticamente, da quando avevo quindici anni non mi sono mai fermato) e non voleva interferire, ma adesso ero libero, quindi andai a trovarlo a Villa Crespi per parlare di questo nuovo progetto cui aveva fatto accenno al telefono.

Il progetto era l’apertura del Cannavaciuolo Bistrot di Torino?

Esattamente. Tonino (Antonino Cannavacciuolo, n.d.r.) mi parlò del progetto del Bistrot e io subito non lo capii. Venivo dall’alta ristorazione, ero un po’ titubante, ma pensandoci bene mi resi conto che si trattava di un progetto davvero moderno e rivolto al futuro. Il panorama della ristorazione stava cambiando, io stesso me n’ero accorto girando il mondo, e così dopo qualche giorno decidemmo che bisognava provare, ma restava un nodo importante da sciogliere: il mio ruolo. Antonino fu fin da subito molto chiaro: avrai le chiavi del ristorante – mi disse – noi ci rivedremo a fine anno e insieme faremo le nostre valutazioni”. Questo era il progetto che sognavo: gestione manageriale vera, non a parole. Volevo assumermi l’intera responsabilità della gestione e venire giudicato a fine anno in base ai risultati raggiunti, ma nel frattempo avere carta bianca su strategie, fornitori, personale e tutto ciò che riguarda la vita quotidiana di un ristorante. Volevo, per dirla in poche parole, essere esattamente quello che sono oggi: il General Manager del Cannavacciuolo Bistrot Torino. 

Ora finalmente possiamo parlarne: in cosa consiste la figura di un Restaurant General Manager?

È una figura che in Italia è ancora poco conosciuta, a differenza di quanto succede nel mondo anglosassone. Il General Manager di un ristorante è colui che coordina tutte le attività della struttura e pianifica gli obiettivi da raggiungere. Detta gli standard qualitativi e fa in modo che vengano rispettati, sceglie e monitora i fornitori, seleziona e forma il personale, si occupa della contabilità e delle faccende burocratiche. Questo dal punto di vista tecnico. Ma ciò che a me premeva di più quando ho cominciato l’avventura al Cannavacciuolo Bistrot era riuscire a trasmettere la passione per questa nuova attività. Ho capito fin da subito l’importanza di circondarmi di collaboratori che non si limitassero a svolgere in modo impeccabile il proprio compito ma che condividessero emotivamente l’intero progetto. I miei collaboratori devono conoscere alla perfezione il proprio mestiere e svolgere al meglio il ruolo che gli è stato assegnato, previa naturalmente una formazione che ho il piacere di condurre personalmente e che non si ferma mai. Tutto questo, senza dimenticare che il Manager di un ristorante come questo deve essere una persona culturalmente vivace, sempre informata su ciò che accade nel mondo, perché può succedere in qualsiasi momento che un ospite, scambiando quattro chiacchiere, faccia riferimento a un episodio di cronaca o di politica, per esempio, e non bisogna mai farsi trovare impreparati. Personalmente sono sempre stato un grande lettore e anche un buono studente, purtroppo ho dovuto lasciare la Facoltà di Giurisprudenza a 3 esami dalla laurea perché con il lavoro non ce la facevo più a studiare, ma leggo ogni giorno dai 3 a i 5 quotidiani e lo faccio, prima ancora che per mestiere, per piacere personale.

Tu che tipo di General Manager sei?

Sul lavoro sono uno che pretende tanto ma che vede anche l’impegno dei suoi collaboratori e lo premia. Sono autoritario, ma mai dittatoriale. Il modello di gestione che prediligo è quello partecipativo. Tutti devono essere resi appunto partecipi dell’obiettivo e condividerlo emotivamente, perché l’emotività è un plusvalore. Devono vivere il ristorante come lo vivo io, devono lavorare con il cuore e sorridere con gli occhi prima ancora che con le labbra. Solo così si può davvero fare la differenza. Un cameriere che arriva al tavolo e che racconta un piatto con passione è l’ingrediente segreto che lo renderà perfetto. Io poi sono rimasto un po’ uomo di sala, quindi durante il servizio è facile vedermi portare i piatti, spiegare un vino e anche accogliere gli ospiti, del resto una passione resta pur sempre una passione, anche se viene declinata in ruoli diversi. Ho cercato di realizzare questo Bistrot mettendoci tutta la mia esperienza e l’idea, condivisa con Antonino, che l’alta ristorazione al giorno d’oggi necessiti di un approccio più leggero, più “easy” se vogliamo. Per questo, se devo descrivere il Cannavacciuolo Bistrot parlo sempre di “alta qualità nell’informalità”, perché garantiamo livelli qualitativi altissimi in tutto, ma declinandoli in maniera tale che il cliente si senta sempre benvenuto, a suo agio e mai un pesce fuor d’acqua. L’unico protagonista del Cannavacciuolo Bistrot è il cliente, qui non esistono autoreferenzialità o chef superstar, perché la ristorazione con la R maiuscola è quella che va sempre e comunque incontro alle esigenze dell’ospite.

A proposito, ci racconti qual è la struttura del Bistrot?

Volentieri. In cima alla piramide ci sono io, e subito sotto di me ci sono rispettivamente lo Chef, che è il capo della cucina, e il Maître, che è il responsabile della sala. Il primo ha la sua brigata composta dal sous chef, dai vari capi partita e dai commis. In tutto questo, ovviamente, non vanno dimenticati i lavapiatti. Il secondo invece dirige una squadra composta da due sommelier, due chef de rang e due commis. Poi c’è il comparto del ricevimento, fondamentale tanto quanto gli altri perché dalla gestione delle prenotazioni dipende spesso il buon esito del servizio. Sapere in che orari prenotare i tavoli, annotare minuziosamente tutti i dettagli che rendono il servizio cucito su misura (allergie, ricorrenze, preferenze di posto, necessità particolari etc.) fa davvero capire al cliente che siamo felici di accoglierlo e desiderosi di regalargli la migliore esperienza possibile. Che in fin dei conti è poi il motivo per cui facciamo questo lavoro.

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