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Intervista a Carlo Salino, sommelier di Opera Ingegno e Creatività

di CORRADO LARONGA

Carlo Salino, Sommelier del ristorante Opera Ingegno e Creatività. Miglior Sommelier d’Italia al Congresso di Identità Golose del 2022, un passato e un presente tra ricerca sul campo e studio sui libri. Lo abbiamo intervistato per Menu à Porter.

Carlo Salino, miglior sommelier d’Italia nel 2022 per Identità Golose. Come ci si sente a ricevere un premio simile, così giovane?

È una sensazione bellissima, quanto inaspettata. Quella di Identità Golose non è una competizione di sommelierie dove si fanno assaggi e analisi sensoriali, ma una vetrina in cui si viene giudicati da professionisti che girano le sale italiane e valutano l’esperienza che vivono, durante tutto l’arco dell’anno. Proprio per questo, il riconoscimento di Miglior Sommelier d’Italia mi dà ancora più soddisfazione. Non me lo aspettavo, perché sono molto giovane e credo che ci siano tanti colleghi più competenti di me, ma invece eccomi qui.

Un premio sicuramente meritato che ci permette di introdurre il prossimo argomento: secondo te quanto e come è cambiata la figura del sommelier negli ultimi anni?

È cambiata molto e con essa sono cambiate un po’ tutte le figure della ristorazione. La vecchia suddivisione di rango, con il sommelier che non toccava i piatti o lo chef de rang che non prendeva in mano i bicchieri non esiste più. Quei “plotoni” di uomini e donne di sala alla maniera francese, elegantissimi e ognuno con un suo compito preciso da svolgere, appartengono al passato. Oggi in sala siamo molto più sinergici e informali, anche nei grandi ristoranti. Io, per esempio, mi muovo tantissimo in sala, amo parlare con i clienti e consigliarli anche sui piatti che talvolta porto personalmente al tavolo. Mi aiuta molto nel mio lavoro di sommelier.

CarloSalino Sommelier Opera

Secondo te da cosa deriva questo cambiamento?

Credo sia originato da una necessità economica: per essere sostenibile, un ristorante non può più avere una persona addetta solo a piegare i tovaglioli, per esempio. Inoltre, la necessità è diventata una forza. Le sale di oggi sono più informali e dinamiche e questo va tutto a vantaggio dell’esperienza. Ovviamente, nei ristoranti di un certo livello, tutto è studiato nei minimi dettagli, anche in un servizio informale, perché tutto deve comunque essere perfetto.

Esiste uno stile di sala italiano?

Sì, ed è uno stile che ci invidiano in tutto il mondo. Siamo un popolo istintivamente ospitale, abbiamo a che fare con il cibo e con il vino da sempre e ci viene tutto molto naturale. In più, abbiamo ottime scuole di formazione che preparano i professionisti di domani e questo non è da sottovalutare.

Che ruolo ha il sommelier nella realizzazione del menu di un grande ristorante?

Fatta la premessa che ogni realtà è differente dall’altra, sempre più spesso chef e sommelier collaborano a stretto contatto nella realizzazione dei menu. Lo chef si consulta con i suoi ragazzi di cucina e poi anche con il sommelier, perché il suo palato, abituato ad assaggi tecnici e sensoriali, è uno di quelli che tiene più in considerazione. Da Opera, le prime due forchettate di un piatto sono sempre per Stefano (Sforza, l’Executive Chef n.d.r.) e per me. Noi, in particolare, trascorriamo molto tempo a parlare della costruzione del menu, prima o dopo l’orario lavorativo. È una delle cose che amo più fare durante l’orario di lavoro.

Carlo Salino Sommelier Opera

Quando hai capito che la passione per il vino poteva diventare una professione?

Sono sempre stato affascinato da come l’uomo, partendo dall’uva, potesse creare una bevanda dionisiaca capace di portarti in un’altra dimensione, con moderazione naturalmente. Crescendo e cominciando ad apprezzare i buoni ristoranti, ho sentito la necessità di capire meglio il vino e da lì è stato naturale cominciare a immaginarlo come una professione. Insieme a un amico, abbiamo deciso di fare una follia e di partire per l’Australia in macchina. Abbiamo attraversato Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Lituania, Lettonia, Russia Kazakistan, Kirghizistan, India, Thailandia e Indonesia, fermandoci in numerose cantine vinicole. Ancora non lo sapevo, ma già mi stavo formando sul campo, facendo il percorso contrario a quello che in genere fa chi vuole diventare sommelier, perché per me la teoria sarebbe arrivata dopo.

E quando sei arrivato in Australia cosa hai fatto?

Ho lavorato al Waterfront di Melbourne, un ristorante di alta cucina. Non conoscevo bene la lingua come oggi, quindi non mi occupavo di vino, ma della sala. È stata un’esperienza molto formativa, perché nel frattempo ho potuto conoscere il territorio, incontrare una miriade di piccoli produttori di vino e assaggiare i loro prodotti. Spesso ne ho trovati di sorprendenti e alcuni di questi sono in carta da Opera. Ero inizialmente dubbioso dei vini dell’isola, perché l’Australia è una terra ancora meno sfruttata dell’Europa e, in genere, ciò si traduce in una produzione da parte delle grandi aziende di grandi volumi di vino a discapito della qualità. Ma i piccoli produttori sono eccezionali e mi hanno fatto ricredere.

Poi il ritorno in Italia e l’incontro con la famiglia Cometto.

Esattamente. Il progetto di Opera mi è piaciuto da subito e ho deciso di dedicarci anima e corpo. Da lì è cambiato tutto e la professione che avevo sempre sognato è diventata realtà. Ho capito che essere sommelier non significa solo assaggiare, abbinare e consigliare, ma che dietro c’è una grande parte di management che riguarda i volumi che entrano, quelli che escono, le previsioni di vendita e la composizione della cantina. Il sommelier moderno è una delle figure del ristorante che ha una visione più completa dell’attività, proprio perché ha a che fare con i numeri.

Parliamo un po’ dei vini piemontesi. La percezione è che, nonostante la qualità e la versatilità, questi prodotti siano ancora considerati “fratelli minori” dei vini toscani e dei vini francesi. Cosa ne pensi?

I numeri ci danno informazioni contradditorie. Per quanto riguarda l’export, Piemonte e Toscana sono sostanzialmente identici come quantità. Per contro, le classifiche delle top 100 cantine nel mondo vedono la Toscana doppiare nettamente il Piemonte. Credo che il motivo sia da ricercarsi nella mentalità dei produttori. Le cantine piemontesi non nascono come aziende, ma come realtà contadine che rimangono legate al territorio e all’artigianalità della viticoltura. In Toscana, le grandi cantine sono invece delle vere e proprie aziende che fanno plusvalenze lontanissime da quelle delle cantine piemontesi. Qual è l’approccio migliore? Sono due modi diversi di pensare. Una bottiglia che costa 700€ verrà percepita dal consumatore in maniera diversa da una bottiglia che ne costa 50, anche se a volte la qualità è la stessa. Lì subentra il marketing e il discorso si fa più complesso.

Carlo Salino Sommelier Opera

E la Francia?

Per la Francia vale lo stesso discorso. L’85% dei vini considerati “prestigiosi” è francese. Una grossa fetta deriva da Bordeaux, storicamente zona di grandi mercanti. I produttori di Bordeaux non si sono mai presentati come contadini, anzi. Hanno creato, già in tempi non sospetti, diciture come “Grand Cru”, che hanno permesso loro di posizionarsi sul mercato a prezzi molto alti e, di conseguenza, creare un mito legato alla viticoltura francese. Con questo, non voglio dire che non siamo di fronte a grandi prodotti, anzi, ma torniamo al discorso di prima sulla percezione. Inoltre, il Bordeaux è un vino capace di acquisire ancora più valore con l’invecchiamento. È un vino longevo a differenza dei vini italiani, a eccezione proprio di quelli toscani e piemontesi.

Ultimamente, quale Paese del mondo ti ha stupito di più per la qualità dei tuoi vini?

Australia e Nuova Zelanda. Sono zone che, pur trovandosi nell’emisfero opposto, hanno per via della posizione geografica pedoclimi simili a quelli dei nostri territori e quindi adatti alla viticoltura. Nuova Zelanda e in Tasmania, invece, lavorano magistralmente il Pinot Nero per produrre delle etichette davvero straordinarie. Anche l’America lavora bene, ormai da diversi anni a questa parte, e non dimentichiamoci la Germania, che era già nota per i bianchi, ma adesso è in grado di dire la sua anche con i rossi. Infine, personalmente, sono un grande fan delle isole, come le Canarie e la Corsica.

Nella cantina di Opera ci sono referenze per ognuno di questi Paesi?

Il progetto è quello di arrivare a toccare più denominazioni possibili in ogni Paese del mondo vocato alla viticoltura. Al momento, abbiamo una carta suddivisa in vini italiani bianchi e rossi, che sono il 50% della carta e provengono da tutte le regioni della Penisola, poi ci sono gli Champagne e i vini francesi, che costituiscono circa il 30% e infine i vini del resto del mondo, che occupano il restante 20%.

Chiudiamo con una domanda leggera: è vero che con il pesce bisogna bere il bianco e con la carne il rosso?

Se vogliamo seguire un dettame classico, sì. Però il mondo della viticoltura si è evoluto molto e, personalmente, più che la colorazione del vino analizzo la sua struttura e il corpo. Ci sono vini bianchi nettamente più strutturati rispetto ai rossi e quindi ideali per reggere un piatto a base di carne. Lo stesso Champagne si suddivide in due categorie: prodotti esili e di facile beva e prodotti invece molto più strutturati, addirittura invecchiati. Direi che non c’è più una regola precisa in tal senso.

 

 

 

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